Spesso vi chiedo di fare il gioco di “se fosse”, per comprendere meglio gli Arcani, ebbene io ieri ho avuto l’opportunità di esplorare e comprendere pienamente la carta del Matto, una delle più complesse del mazzo la carta di tutte le possibilità, la senza forma e colore, la carta che può declinare tutto quanto c’è di più sublime e di più infimo nella nostra umanità.
Giovedì sera, il gruppo teatrale di cui faccio parte ha ospitato una grande donna.
Una di quelle donne che ricordano tanto Rita Levi Montalcini, così forte imponente nel corpo gracile, i capelli candidi, come nuvole leggere, che coprono una mente sempre in fermento.
Graziella Longoni ci ha onorato della sua presenza parlandoci con semplicità di qualcosa che è perennemente sullo sfondo delle nostre vite: la guerra, più precisamente, le donne coinvolte nella guerra, le donne che la vedono, che la subiscono e che cercano di sopravvivere ad essa.
Le parole dette durante la serata sono state molte, alcune graffianti come le unghie sui vestiti strappati da corpi violati, altre parole sono state dolci e carezzevoli, come gli abbracci tra Serbe e Croate nei lunghi pellegrinaggi per celebrare, per non dimenticare, per dare un senso. Ed è questo il filo rosso che ha legato tutte le storie che ci ha raccontato Graziella: quell’assenza di senso, di comprensione che spesso viene chiamata follia.
La cifra, il marchio del Matto, infatti, è lo zero. Da Steve Jobs a “Ciccio della Stazione” (si tratta di un amico che viveva nella stazione del mio paese natale e aveva l’abitudine, tra le altre cose, di litigare con se stesso), chiunque venga additato come gregario di quest’Arcano è percepito come zero, come fuori dai numeri e dalle valutazioni.
Inoltre, nulla vale la vita di chi si sveglia sotto un cielo in guerra, specialmente se il suo letto poggia su una terra invasa.
Follia è l’illusione che chi abbiamo di fronte inizi e finisca in una definizione: “sono donna“, sono uomo“, “matto/a“, “sono bella/o“, “sono cattolico/a“, “sono musulmano/a“, “sono Serbo“, “sono Croato“, “sono Palestinese” “sono Israeliano“. E quale illusione può essere più insensata del credere che un aggettivo come quelli sopra possano identificarci, dirci chi siamo? Cosa c’è di più alienante di riconoscersi e riconoscere gli altri in questi aggettivi al punto da perdere la propria umanità. Identificarsi al tal punto in un aggettivo da smettere di essere Maria, Giacomo, Rashid, Turìa, Fleur, Farba e diventare quell’aggettivo e così non è più Dragomir a violentare Turìa, semplicemente un serbo sta violentando una musulmana. Negli aggettivi “serbo” e “musulmana” non ci sono più persone ma solo idee e definizioni da entrambe le parti è così che musulmano può diventare sinonimo di terrorista, aggressore, violento, male o inferiore e perciò da sterminare e cristiano, europeo, occidentale può diventare sinonimo di infedele, di sporco, di immorale e perciò, ancora una volta, da sterminare.
Il Matto è non essere qui e ora, è guardare, essere altrove, come il Matto della Carta che guarda sopra la sua spalla e non la strada che percorre. Qui ed ora. Dove sto andando? Con chi sto parlando? Cosa sto facendo?
Per fare la guerra è necessario, infatti, guardare altrove, ad un passato mitizzato, ad esempio, o ad un futuro nel quale un qualche messia giungerà per far scorrere latte e miele nella Terra Promessa. Essere qui ed ora ci costringe a vedere la distruzione intorno e che quindi non è verso una società equilibrata e prospera che ci stiamo dirigendo (perché sappiatelo, anche qui, nell’Italia che si abbuffa di bufale stiamo combattendo una miserabile guerra dei poveri) bensì verso il precipizio annunciato dalle macerie fumanti causato da una bomba intelligente.
Ancora il Matto è colui che non si assume la sue responsabilità e nega la realtà. Perché come si può distruggere sapendo di farlo? Chi mai ha invaso un paese, ucciso la popolazione o rifiutato asilo a profughi stremati, assumendosi la responsabilità di farlo? Per sparare su altri esseri umani devi dirti che non è colpa tua, che esegui solo gli ordini. Devi convincerti che sono loro, gli uomini, le donne, i bambini e i vecchi che uccidi, o che rifiuti, i veri colpevoli. Se solo i Nativi avessero lasciato le loro terre, rinunciato immediatamente alla caccia al bufalo, alle loro tradizioni e così via nessuno si sarebbe preso il disturbo di far loro guerra, non vi pare? È solo convincendosi che combattiamo contro un nemico che possiamo bombardarlo, imprigionarlo, deportarlo, cacciarlo, sterminarlo. Se per un attimo, tra una forchettata di spaghetti e un servizio al telegiornale riconosciamo un bambino e non solo un’altra “vittima della guerra” non possiamo più semplicemente passare alla pagina sportiva o di costume, qualcosa si muove dentro e qualcosa dobbiamo cominciare a farla, fosse anche solo urlare: “No, not in my name!”
Perché la follia ha anche un rovescio della medaglia, come tutto del resto, e l’illusione si chiama anche utopia, nel senso più nobile del termine, nel senso di “buon luogo” da creare, cercare, costruire, raggiungere con tutte le forze.
Ed è perciò necessario lo sguardo altrove, in alto, alle stelle e al cielo immutabilmente azzurro e limpido sopra la polvere e il sangue. È folle, vedere una palestra di hip hop nell’unico casermone ancora intatto tra le rovine. Solo levando lo sguardo di là dai vetri rotti è possibile scorgere il verde delle colline e sperare, nonostante qui e ora, che ci sia abbastanza futuro da mettere al mondo dei figli, adesso, partorendo in una casa diroccata, sistemando una culla di fortuna nell’unico punto risparmiato dalla pioggia.
Solo un folle può pensare che chiedere scusa, con l’innocenza dei bambini, possa mettere a posto le cose. Scusa, per la tua casa distrutta, scusa, per il tuo lavoro perso, scusa per la tua fame, scusa per i tuoi figli morti, scusa, mille volte e mille ancora. Eppure c’è chi è abbastanza folle da attraversare questi ponti di speranza e stringere mani tese.
Perché dove tutti vedono precipizi il Matto vede ponti. E in quella quantità incalcolabile di zeri il Matto vede un numero sempre crescente di nuove case, di nuovi legami d’amore, di nuove città e di nuovi mondi.
Infine follia è essere fuori dal sé, saper essere in tutte le cose nello stesso momento, nel filo d’erba, nel cielo, nel sole e nella pioggia, nell’altro, nelle sue parole, nella sua pelle, nel suo dolore, nei suoi occhi e scoprire che in fondo si sta guardando se stessi.
Follia è la guerra e folli si deve essere per muoverla ma ancora più folli è necessario che siamo per fermarla.
Nec spe, nec metu
Bimbasperduta.
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